Una deviazione

Una deviazione

L’autobus fa una deviazione. Si tuffa in un flusso lento e rosso, come lava che incolla le macchine all’asfalto. Ho un posto a sedere vicino un signore dai baffi folti e scuri e con il viso leggermente butterato. Magreb, penso velocemente. Ma non vado oltre nell’indovinare la sua provenienza. Sono stanco e riduco al minimo le interazioni sociali. Voglio solo tornare a casa. Tolgo un auricolare quando capisco che mi sta parlando. Lo fa con pacatezza, plasmando con le mani le parole di una lingua che ancora non conosce. Mi chiede se quello scatolone arancione dentro cui abbiamo posato il culo stia facendo la strada giusta. Provo a rispondere quanto sentito prima di cambiare mezzo, lì a Casalecchio. E cioè che c’è una deviazione in atto su tutte le linee dirette a Bologna. E che avrebbero ripreso il proprio tragitto all’altezza di Porta Saragozza. In breve tempo mi trovo gli occhi puntati addosso. Capisco che tutti sono stupiti per quella inaspettata svolta a sinistra e mi sento costretto a ripetere la storia. Mi rivolgo ad un gruppo di ragazze ma il signore che siede al mio fianco è l’unico a dirmi grazie, appoggiando morbidamente una mano sul mio braccio sinistro. Non parla nessuno, siamo tutti passeggeri solitari. C’è chi legge un libro, chi scorre un testo minuscolo sul display di un telefonino e chi marca con un evidenziatore un blocco di fotocopie. C’è la calma delle sere invernali. L’unica persona rimasta in piedi si è tolta il berretto e lo usa come un ventaglio. Lo fa per mezz’ora, senza sosta. Per il resto siamo tutti fermi. La maggior parte ascolta musica con le cuffiette. Sono quasi tutte di colore bianco. Le mie sono nere. Quelle bianche le ho distrutte entrambe in meno di una settimana. Alzo il volume. Il disastro dei miei pensieri sotto le macerie dei Nuovi Edifici Che Crollano. La polvere che si alza porta un po’ di sollievo. Ascolto tutto il disco fino alla fine. E dopo questo anche un altro. Disquieted By. Ho il tempo per due brani extra: arrivo a casa un’ora e cinquantadue minuti dopo essere uscito dall’edificio in cui lavoro. Mia madre al telefono sembra un disco rotto. “Sei sicuro? Sei sicuro? Sei sicuro?”. Si mamma. Dalle ai poveri porca miseria, non le voglio quelle cose. Non qui. Le spiego rigidamente le mie motivazioni. Cercando di non perdere la calma. Di non dire altre parolacce oltre alla prima che non sono riuscito a trannenere in bocca. Affianco passato a presente. Ce la faccio, resto calmo. E subito dopo cambiamo discorso, entrambi contenti di non essere inciampati ognuno nella stanchezza dell’altro. Raccolgo la sua buonanotte. E la custodisco gelosamente, trovandole un bel posto all’interno della mente. Poi apro una scatoletta. Senza nemmeno la voglia di riscaldarla sto per tuffarci dentro un cucchiaio. Scena già vissuta altre volte. Ma provo un senso di tristezza. E scendo ad un compromesso: metto in frigo la scatoletta e prendo una pentola: cucino. Ma senza apparecchiare. Metto solo uno strofinaccio sul tavolino di fronte al divano. Ed i piatti li lavo domani. E così sia.
Un piccolo pasto per l’uomo, un grande passo per l’amenità.

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