Il tipo che sembrava Lydon

Il tipo che sembrava Lydon

Ma proprio così, ha detto?
Mi guarda fisso negli occhi mentre a tastoni cerca l’astuccio del tabacco sul legno verniciato del tavolo.
– Cioè, davvero?
La domanda mi spinge verso la spalliera della sedia. Mi tornano in mente quelle parole squallide, dette in un dialetto esangue, apatico. E tutto quello che stava dietro torna a galla insieme a loro. Annuisco. Poi soffio via un po’ d’aria dalla bocca. Come se fosse stato gas di scarico rimasto imprigionato lì dalle mie precedenti parole. Il ragazzo con la barba si avvicina con passo morbido. Sulla sua polo chiara due spighe in rilievo circondano un boccale di birra, anch’esso in rilievo. È alto. E un po’ sovrappeso.
Guardo prima lui e poi lei. Le faccio un cenno con aria interrogativa, indicando i bicchieri vuoti. Lei controlla l’ora sul display del telefono. Fa per pensarci su ma poi acconsente.
Il ragazzo capisce, mi chiede conferma quindi si avvia verso il bancone.
Prima però fumo questa: mi aspetti o vieni con me?
Vai pure tranquilla, credo che mi troverai ancora qui – le dico.
Ride e si alza. Appena esce ne approfitto per pagare il giro direttamente alla cassa e per fare uno stop and go al minuscolo bagno ricavato dietro la cucina.
C’è odore di pane bruciato. Non ho cenato ma non ho granché fame. Spengo la luce e chiudo la porta alle mie spalle. Il rumore dell’asciugamani elettrico diminuisce e poi cessa.
Torno a sedere.
Lei rientra pochi secondi prima che arrivino le ordinazioni. Dice che la temperatura lì fuori si sta abbassando e si passa velocemente le mani sulle braccia scoperte. Quindi ne infila una nella borsetta. La fermo mentre sta provando a tirar fuori il portafoglio. Un po’ si arrabbia, un po’ fa finta. Mi sgrida. Ma dice anche grazie. Ed aggiunge con garbo la giusta clausola di chi accetta l’omaggio di una bevuta, a patto di poterne offrire una a sua volta.
No-problema, cara: il prossimo giro è tuo. Facciamo toccare i bicchieri. Beviamo. Poi restiamo zitti. Spetterebbe a me parlare ma non so come riprendere il discorso interrotto in precedenza. Lei intuisce e prova a rimettere in moto le chiacchiere facendo una battuta sul tizio strano che sta davanti al locale. Lo individuo tra gli altri ma sono distratto.
Dalle casse esce “White Winter Hymnal” dei Fleet Foxes.

Mi tornano in mente un sacco di cose. E ad un certo punto sono tra un palco ed un altro di un Primavera Sound di qualche anno fa: cammino in compagnia di amici nel sole di un pomeriggio di fine maggio, a Barcellona.

Ritorno sul pianeta Terra in tempo per sentirle dire:
Comunque è da matti… E lei non ti ha detto nulla? Non si è -non so- scusata o chiarita o altro?
Nulla del genere, spiego. Non credo le interessasse farlo. Altrimenti, dico, ci avrebbe provato. No: le è andato più che bene che i fatti si siano svolti così. Con o senza conforto dei suoi angeli custodi.
Ommadònna. Ma almeno sa cosa ti ha detto il suo amico?
La domanda è scomoda. So cosa sottende. Si morde un labbro. È un solo istante, ma lo fa.
Mi fermo a riflettere. Gomiti poggiati sul tavolo. Guardo verso fuori, aldilà del vetro. Tiro un respiro più lungo degli altri e distendo le braccia. Lei si sistema meglio sulla sedia. Ci impiego ancora un po’ prima di parlare. Fino a pochi minuti prima temevo di star chiacchierando troppo. Ora, all’improvviso, era come se mi si fosse riversato sulle spalle ed in faccia tutto il peso della giornata. Provo stanchezza.

C’è un autobus incendiato all’interno di un deposito di periferia. I vetri sono crepati per il troppo calore. È vicino alla pizzeria dove siamo andati a cenare con i colleghi. L’estate è alle porte. Uscendo il mio telefono squilla. Il numero è nascosto. Prendo lo stesso la telefonata ma nessuno risponde. La cosa si ripete. Più tardi con il trucco di un amico scaltro e smanettone provo a dare un nome a quell’anonimo. Ma questo succedeva l’anno scorso. Ed io mi sono di nuovo perso nei pensieri.

La guardo. Aveva smesso di parlare da un po’. Capisco che sta aspettando una risposta o un commento a quanto ha appena detto e sembra leggermente in imbarazzo.
Se non ti va di parlarne scusami…
No – dico.
(È di nuovo Italia, Bologna. Settembre del 2014. Sono tornato.)
È che è una cosa alla quale ho pensato spesso nei primi giorni. Ma non ho trovato una risposta precisa. Forse c’è stato del protagonismo da parte del tizio. O, insomma, da parte di tutti loro. Ma sarebbe troppo ingenuo pensare che abbiano fatto tutto senza essere in qualche modo imbeccati… Es il punto… il brutto, anzi… è proprio questo. Beh: peccato.
Aggiungo altri particolari. Continuo a parlare. Lei mi ascolta dispiaciuta.

Quando racconto la parte più difficile rimane immobile. Non un cenno. Non una parola. È tesa. In ascolto. Provo un senso di gratitudine, finisco di raccontare e poi ingoio il punto finale del discorso con un sorso generoso. Il fondo di vetro picchia sul legno.
Ancora qualche secondo di silenzio e poi, con voce calma, quasi cinematografica, inizia a parlare.
Una volta mi hai detto…
Si gira e mi indica un tavolino fuori.
Eravamo seduti là… Ti ricordi? Vicino c’era quella coppia inglese: il tipo che sembrava Lydon… Quella volta mi hai detto che le persone non possono darti più di quello che hanno. Che non devo aspettarmi più bene di quello che gli altri sono capaci di provare. “Patrimonio affettivo”, lo hai definito. Mi era piaciuta l’espressione e mi avevi confessato di averla usata già altre volte. “Non possono darti il bene che non hanno”, hai detto. Ma non hanno restrizioni nelle loro “capacità di offesa”: possono far male senza limiti. E senza preoccuparsi di quanto dolore infliggano tenendo determinati, evitabili comportamenti. E se credi di non meritarli, tanto peggio: ti farà ancora più male. “Così vanno le cose”. E puoi salvarti solo mettendo il culo al sicuro e coprendo le parti più vulnerabili. O dandotela a gambe, se è necessario. Hai fatto l’esempio del cane impazzito che può staccarti una gamba per dire che non sarebbe certo poco dignitoso darsi. Si, insomma: filarsela. E avevi ragione.
Ho pensato molto a quelle parole in seguito. Anche quando…. Beh sai quando…

Il suo tono è appena più alto rispetto a quello che aveva all’inizio.
Per qualche ragione sento di star diventando un po’ rosso. Ma sto accogliendo ogni singola sillaba che pronuncia. Non si ferma.
Credo che quel discorso, adesso, faccia al caso tuo. Non conosco queste persone e nemmeno voglio farlo. E non mi interessano i tuoi distinguo, le tue spiegazioni, i tuoi forse ed i chissà. Basta metterti in discussione in questa storia che, comunque la giri, puzza di cattiveria e di mediocrità. Prima, credimi, non sapevo se, come al solito, mi stessi prendendo per il culo o meno. Ti ascoltavo aspettando che ti autodenunciassi da un momento all’altro. Ed ero pronta a sorridere. Quando ho capito che eri serio ci sono rimasta male.
Si ferma di colpo.
Mi sa che ho parlato troppo, mi dispiace… Ogni tanto non mi regolo, cavolo…

Questa volta sono io a ridere. Sono contento che sia lì davanti a me.
La tranquillizzo. Le dico che, se le va, può parlarne quanto ne vuole. Di sicuro l’ascolterei e risponderei con piacere alle sue domande. Ma che tutto sommato forse è meglio allontanare dal quel tavolo persone che non hanno nulla da spartire con noi. Così, tanto per stare più …comodi.
Senza dirci altro ascoltiamo il vecchio singolo dei Vampire Weekend che sta passando in quel momento alla radio. Finiamo di bere proprio mentre la canzone si ferma con un hey hey hey.

Grazie, dico.
Sei tu che hai pagato da bere, risponde.
Ci sentiamo entrambi più rilassati. Ed è a quel punto che, con calma, decidiamo se prendere un’altra consumazione o se rientrare a casa.

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