Carla

Carla

Carla ha i capelli color mogano. Le scendono lisci, fino a due palmi sotto le spalle. Sulle guance rotonde, tra galassie di efelidi, spuntano timide le stelle nere di alcuni nei. Si aggira nel reparto dei vini con una canzone in bocca. La modula a voce bassa, ma perfettamente udibile. C’è silenzio nel negozio. E’ quasi vuoto ed è una delle ragioni per cui mi sono deciso ad entrare. Al ritorno dal lavoro non mi andava di salire a casa, avevo un po’ di casino in testa e volevo provare a sistemarlo facendo due passi. E così, superando le inferriate grigie, mi sono addentrato nelle vie che costeggiano il quartiere. Strade, a dire il vero, poco illuminate ma in compenso, per me, piuttosto illuminanti.
Cammino nell’umidità che sale e avverto nell’aria i primi segni dell’annunciato arrivo del freddo. Mi ritrovo ogni tanto a coprirmi il naso con una mano: mi ha fatto un male terribile durante quel raffreddore che mi ha messo quasi ko ed ora non voglio ricadute.
Quando penso di aver trovato un po’ di senso svolto verso casa. E mi dico che una birra ci starebbe bene, lì sul divano, con un disco che parla al posto del televisore. Prima di cedere alla tentazione di evitare la fila dall’esoso pakistano di via Galeotti sbircio attraverso le vetrine del market che sta a pochi passi dal mio cancello. E mi va di lusso: solo tre persone alla cassa. E’ così che sono entrato.
Lei muove i piedi e il busto seguendo la melodia della sua canzone. Ho preso tre lattine e la osservo mentre le passo vicino, diretto al cesto del pane. Recupero quattro rosette molli come un cuscino che non so perché non ho lasciato lì e faccio per andar via. Davanti ho la strada bloccata da un portacarichi pieno di roba e per arrivare alle casse devo tornare indietro. E lei è ancora lì, a guardare le bottiglie. Continua a cantare. Rallento il passo, mi vede, mi guarda, sono indeciso, poi mi fermo, decido, le chiedo: “Cosa canti?” Provo ad aggiungere altro pensando che la domanda possa essere arrivata con impertinenza ma lei risponde veloce: “Una canzone di James Taylor”. Le dico che è una cosa molto bella, quella. “Non so che vino prendere, non ne capisco nulla” dice, abbozzando un broncio. È di una socievolezza disarmante. Bussa, la lascio entrare. Indovino lo scopo della domanda chiedendole se fosse per una cena. Una cenetta con il ragazzo. La gioia le invade il viso, non dice nulla ma fa velocemente su e giù con la testa. Mi dice che viene da un paesino vicino Parma e che ha preso le chiavi di casa del suo moroso passando dalla madre di lui. E che gli ha preparato una sorpresa. Lei vive con i suoi -avrà poco più di venti anni- e viene a trovarlo ogni tanto, quando ha qualche soldino da parte. Lui lavora in un’officina meccanica e da qualche tempo ha preso casa da solo. Dal prossimo anno forse si trasferirà qui.
Alza un paio di bottiglie e me le mostra: non so che vino consigliarle, imbarazzato dai prezzi che non raggiungono i quattro euro.
Alla fine sceglie un Cabernet che forse in passato avevo bevuto anche io, senza morire…
Le dico “buona serata e buona fortuna per il vino” e vado a pagare. Lei mi dice “io sono Carla”. Aspetta di sentire il mio nome e riprende a cantare. Quando raccolgo il resto sta passando la bottiglia al commesso. Non è una bellezza da rotocalco ma ha una luce in viso che la rende splendida. Metto le lattine nella tasca del giaccone mi dirigo fuori. La guardo un’ultima volta. E’ felice. Balla. E continua a cantare.

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