C’era quiete

C’era quiete

Le ho chiesto se Dylan le andasse bene. Stavo per scegliere un disco quando la porta si è aperta e con passo lento è entrata nella stanza. In silenzio e con il volto diviso tra l’assonnato e l’imbronciato, ha diretto uno sguardo interrogativo prima verso me, poi verso il lettore audio che avevo in mano, quindi di nuovo verso me.
Il tutto restando immobile e senza dire una sola parola.
Un paio di ore prima ero scivolato fuori dal letto facendo piano per non svegliarla. L’avevo lasciata lì, con la testa letteralmente sprofondata nel cuscino, modalità salma. Che se non fosse stato per l’indecoroso russare per il quale più tardi l’avrei presa anche in giro, avrei potuto credere fosse morta.
Sì, va bene“, ha risposto fingendo di pensarci e interrompendo così il suo silenzio. Dopo aver controllato che avessi messo ogni cosa in tavola per la sua prima colazione, si è seduta, di nuovo in silenzio, con il suo pigiama ammiccante al porno orientale (chissà dove diavolo l’aveva rimediato). La tazza con i quadretti arancioni era troppo piccola per ospitare i cereali al cioccolato e con il cucchiaio largo quasi quanto la tazza stessa, non riusciva a pescarli nonostante un invidiabile zelo.
La TV spenta restituiva un riflesso annerito della stanza e dei nostri movimenti lenti. Dylan, che forse si era svegliato un po’ prima ed era un po’ più arzillo, diceva qualcosa a proposito di conclusioni che avrebbero dovuto essere più drastiche, strascicando la voce.
C’era quiete.
Le parole della notte, i tanti racconti di parenti lontani e quei ricordi di fatti così strani e insoliti -ripescati chissà da quale angolo della mente- mi avevano trasmesso un senso di calma che sentivo ancora addosso.
Siamo rimasti a lungo nella pace di quella mattina di autunno: una tela bianca nel silenzio che la città dipingeva sotto un cielo di ovatta.
Una confidenza quasi familiare consentiva il silenzio di chi vuol riordinare i pensieri dopo un sonno iniziato troppo tardi. Tutto girava con lentezza.
Il tempo sembrava aver rallentato. E noi ne approfittavamo.
Dopo l’alba successiva e il primo tramonto, nel buio della notte è andata via, lasciando la desolazione del silenzio e l’imbarazzo delle bugie. E lo stordimento di chi, in due mosse, è costretto a vedere qualcuno chiudere la propria porta ed entrare in quella di un altro. Senza annunci o spiegazioni.
Come un interruttore premuto senza nemmeno essere guardato.
Ogni tanto ripenso a quell’autunno. E mi rendo conto che, in realtà, già allora tutto doveva sembrava esattamente quello che poi è stato: una promessa di felicità non mantenuta. La tela di quel giorno si è riempita di ragnatele. E qualcuno ci ha scarabocchiato sopra. Ma era bello, allora, vederla nel suo candore.
E credo che quel senso di ingenua innocenza in qualche modo piacesse anche al signor Zimmerman. Chiedeteglielo, se vi va: anche se teneva gli occhi fissi sull’autostrada numero sessantuno, quella mattina, dentro quella stanza c’era anche lui.

I thought I have been given
Another chance again
But heaven lies as usual
I repented but in vain

(Blixa Bargeld, “A quiet life”)

I commenti sono chiusi.