Adidas

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La prima cosa che noto sono le sue scarpe da ginnastica. Bianche, con tre strisce oblique e parallele di un colore scuro. Forse blu. Prendo i guanti dalla tasca, li metto. Fa freddo e piove da ormai una trentina d’ore. L’aria è satura di umidità. Anche la pavimentazione al coperto dei portici è tutta bagnata. Oltre me e la donna non c’è nessuno. Sono le dieci di sera. sono andato via un po’ presto da casa dei ragazzi ma a dirla tutta non so nemmeno come ho fatto ad uscire stasera, acciaccato come sono. Il fine settimana è stato intenso e stancante. Ed il cambiamento climatico forse non è stato molto d’aiuto. Poi diciamolo: le esagerazioni hanno il loro prezzo.
Guardo in direzione del cavalcavia. La figura si inserisce nel cono di visibilità schiacciato dalla strada. Ha un bambino nelle braccia. Lo bacia continuamente. Le maniche della sua giacca verde militare formano una culla. Non si può dire che lei abbia un bell’aspetto. Ma chi ce l’ha con quel tempo, a quell’ora di domenica, nella luce dei lampioni? Il volto è vagamente familiare. Asciutto, ma non troppo magro e i capelli, tra il biondo ed il castano -forse poco curati- le toccano le spalle. Spinge i suoi occhiali con il pollice di una mano. Poi si avvicina con la testa per dare un altro bacio al cagnolino che stringe al petto. E porca miseria, avrei scommesso fosse un bambino. In effetti lo teneva in una posizione un po’ strana. No, non poteva essere un bimbo, avrei dovuto capirlo subito. Un fagotto troppo stretto, oltretutto.
Si avvicina una macchina bianca. Sembra voglia accostare ma è solo il semaforo a imporle di fermarsi. Tom Waits esce a tutto volume dalle casse dell’impianto. Rain Dogs. Più che ai Clochard penso al tempo e all’animaletto destinatario di tutte quelle coccole a pochi metri da me. Ma dura poco. Il conducente dell’auto cambia stazione e il pensiero va via. La sua ricerca finisce su qualcosa di veramente brutto alla fine della quale voci idiote si accavallano senza grazia. Ho mal di gola e sento il raffreddore aumentare di minuto in minuto. Vorrei essere già a casa. Passeggio un po’ per ingannare l’attesa. C’è qualcosa che non mi torna, però. Ci penso ma non capisco cosa sia. Un furgone passa a tutta velocità schizzando alcuni ragazzi dall’altro lato della strada. E una bestemmia forte rimbomba come un tuono sotto la pensilina. Guardo d’istinto verso la donna. E con la coda dell’occhio vedo in lontananza l’autobus. Lo vede anche lei. Perché si muove verso la strada. Poi compie un gesto inaudito. Sono sul punto di gridarle qualcosa, mi spavento, ma le parole si strozzano da sole: ho visto il cagnolino schizzar via dalle sue braccia. Un gesto osceno, disumano. Cerco con lo sguardo il punto di atterraggio di quello che, chissà perché avevo immaginato fosse un chihuahua. Ma non c’era nulla che potesse schizzare, cadere, saltare o atterrare. Né bimbi né cani o gatti, iguane o animali esotici. Quello che la donna continuava ad accarezzare e baciare era un maglione arrotolato. Lo sbatte una sola volta nell’aria, per stirarlo. Poi, legatoselo ai fianchi, mi precede sulla scaletta posteriore dell’autobus.

Oh, how we danced and you Whispered to me
You’ll never be going back home
You’ll never be going back home

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